3 dicembre 2021 - Tecnologia senza human touch? Come avere una Ferrari e non saperla guidare
Andrea Giuricin di TRA Consulting e Michele Sambaldi di Pellicano Hotels, Matteo Ciccalè di Scalapay e Giovanna Manzi di Best Western, Andrea Delfini di Blastness e Fabio Coppola di YellowSquare concordano tutti su un punto: senza tecnologia non si va da nessuna parte e chi tenta di rimanerne fuori farà la fine dell’Hotel Miramare di Viserbella, che ai propri clienti manda ancora una cartolina di auguri di Natale. Per posta. Ognuno, ovviamente, vede la tecnologia applicata all’hospitality dal proprio punto di vista. Ciccalè come modalità di acquisto a rate senza pagare interessi, Coppola come canale per la creazione di una community, Delfini come mezzo per battere le OLTA a disposizione degli hotel indipendenti. Ma la questione più intrigante l’ha posta Sambaldi: “Passo la mia giornata a cercare di capire come funziona l’Intelligenza Artificiale, quando i robot sostituiranno il personale e se i chatbot diventeranno intelligenti. Ma intanto, nei miei hotel, accolgo gli ospiti con un sorriso. Perché, quello, la tecnologia non può riprodurlo!”. Concordo al 100%. Dopo un’indigestione di tecnologia applicata al turismo, rimango dell’idea che la miglior accoglienza in un albergo, raggiunto magari dopo un faticoso viaggio, sia il sorriso di un/a giovane e un caldo: “Ben arrivato, signore, è un piacere averLa qui con noi. Cosa posso fare per Lei?” Ovvio che yeld e revenue siano imprescindibili. Ovvio che - come afferma Giovanna Manzi - dare in outsourcing attività “core” dell’hotel come ristorazione, manutenzione o pulizie, magari per investire l’equivalente in Google Travel Ads, significa NON fare l’imprenditore alberghiero. Ovvio che - ancora Sambaldi - se entro in camera e per accendere la TV su Rai1 impiego mezz’ora, nonostante due telecomandi a disposizione, qualcosa non funzioni. Comprare tecnologia e usarla male, ovvero dimenticando il fattore umano, è come avere una Ferrari e non saperla guidare. Allora meglio l’Alfasud dell’Hotel Miramare di Viserbella, che almeno gli auguri di Natale me li manda. Per posta.
18 ottobre 2021 - Il “revenge exhibition” e cinque tipi da TTG
Frequento fiere da più di trent’anni, ne ho viste di tutti i colori, quindi mi perito di conoscere i “tipi da fiera”. Oggi mi dedico a 5 “tipi da TTG”, gente che s’incontra in giro. A Rimini e non solo. Quello che il PIL del turismo deve crescere al 20%, quello che l’Italia ha il 70% del patrimonio turistico mondiale - Di norma è un politico prestato al turismo, che fino all’altro ieri si è occupato di Parmigiano Reggiano o di Protezione Animali. Oppure è un esperto di marketing che sa tutto della Ferragni e dei Nutella Biscuits, ma non conosce la differenza tra incoming e outgoing. Entrambi sproloquiano di turismo, in favore di telecamera, e hanno capito che quando citano il PIL o il numero dei siti Unesco, un titolo o un lancio stampa lo acchiappano. “L’Italia è il Paese più bello del mondo!” proclamano entusiasti. Chi l’avrebbe mai detto, rispondiamo noi. Quello che quest’anno ha lo stand più figo; quello che lo stand più figo ce l’aveva l’anno scorso, ma quest’anno non c’è - Sono le aziende che hanno deciso di esordire in fiera. Padiglione maxi, luci sparate, musica a palla e hostess come se piovesse. Ovvio che siano uno degli stand più affollati, in fiera quando c’è casino (scusate la metafora) la gente ci si tuffa, anche perché colazioni e aperitivi sono gratis. “Cresceremo del 100% in due anni, puntiamo a 50 milioni!” recitano entusiasti i loro comunicati stampa. C’è a chi va bene, cresce del 15%, si accontenta e l’anno dopo in fiera ci va ancora, con stand ridotto e hostess limitate. Ma c’è chi sparisce del tutto e quando chiedi al collega che lo scorso anno ballava praticamente sul tavolo: “Ehi, ma qui non c’era lo stand di XY, che fine ha fatto?” risponde distratto: “Boh, a me deve ancora pagare una fattura”. Quello che cambia azienda più frequentemente delle edizioni del TTG - “Ciao, come stai?” (io) “Magnificamente! Senti, devo presentarti Paperino Tour Operator, è una bomba!” (commerciale aggressivo, di quelli che in fiera ti parlano, ma nel frattempo sbirciano le ragazze che passano). “Paperino? Ma non lavoravi per Topolino?” “Ma no, Topolino Tour Operator? Ho fatto una consulenza l’anno scorso, ma erano scarsi. Allora, noi di Paperino puntiamo a 50 milioni in due anni!” “50 milioni? Ma non era l’obiettivo di Pippo? Mi avevi pure lasciato un comunicato stampa, due anni fa...” “Pippo Tour Operator? Sì, bravi, ma erano lenti, non valeva la pena... Paperino è il futuro, posso mandarti l’intervista del CEO e founder? Mi scrivi qualcosa, vero?” “Va bene, manda, Paperino è un bel nome per un t.o.” Il bello è che quel commerciale ci crede, beato lui. Quello che prima era il CSR, poi è arrivato l’esperienziale, dopo è passato al food e oggi è tutto green - Sono le mode in fiera, che poi sono le stesse che girano in azienda e di cui parlano giornali e TV. Qualche anno fa se non ti occupavi di Corporate Social Responsibility eri un paria, poi se osavi parlare di “destinazione” e non di “esperienza” ti guardavano male, quindi è arrivato Master Chef e cucinare, sempre in favore di telecamera, è diventato il mestiere più bello del mondo. Da quando c’è Greta, il mantra è “green/ecologico/sostenibile” e tutta la filiera turistica - dal rifugio in montagna all’agenzia sotto casa - si vanta di fare la differenziata (quella seria, con 7 bidoni colorati diversi). Bello e corretto, magari tenendo conto che il nostro settore - tra aerei e pullman, hotel sulla spiaggia e immersioni sulla barriera corallina - è purtroppo uno dei meno green che esistano. Quello che “ma lo sai che...?!” - È il personaggio che in fiera mi piace di più, se non lo incontro ci rimango male. Perché un sorriso te lo strappa sempre. Si avvicina, ti afferra un braccio, si guarda intorno per capire se ci sono orecchie indiscrete e poi ti spara all’orecchio: “Ehi, ma lo sai che il capo di XY se la fa con la tipa di YZ? Lo sai che ha piantato la moglie? Quella ha ingaggiato una banda di avvocati e ha promesso di fargliela pagare cara! Per me XY salta domani!” “Ma no?! Davvero?” rispondo io, un po’ scettico. “Eddai, che ti ho mai raccontato balle?! E lo sai che il proprietario della compagnia AB è scappato coi soldi e ai soci ha lasciato un miliardo di debiti? Per me AB salta domani!” “Pure loro? Caspita!” replico io. Quello che “ma lo sai che...?!” può andare avanti per ore. Le sa tutte.
Ma ormai sono le 18, la fiera chiude, tu sei sfatto, te ne vai barcollante verso l’uscita e pensi: “Sì, vabbè, alla fine mi è piaciuta anche stavolta, l’anno prossimo ci torno!".
8 luglio 2021 - eCommerce contro commercio tradizionale: Amazon vince 2-0
Ho un amico di Roma che compie gli anni e decido di regalargli una bella camicia. Sono in Stazione Centrale a Milano, entro nel negozio di una catena di abbigliamento maschile (molto nota in Lombardia, che indicherò come “B”) e la compro. Il commesso, peraltro molto gentile, si dimentica di dirmi che è una “slim fit” (cioè una taglia in meno) e soprattutto che - nel caso non andasse bene - devo restituirla in quel negozio lì. Vado a Roma, consegno la camicia, che però va stretta (beh, è una “slim fit”...), ma io dico al mio amico di andare nel negozio di B più vicino (Via Appia Nuova, a Roma) che certo gliela cambiano. Per sicurezza telefono a B in stazione per avvisarli, ma il commesso mi dice che la camicia non può essere cambiata a Roma, solo a Milano; al che, blocco il mio amico (che stava entrando nel negozio di Roma) e lo spedisco alle Poste più vicine per rimandarmi indietro la camicia (10 euro per la spedizione). Ricevo la camicia e visto che abito a Monza, mi reco nel negozio di B in pieno centro, chiedendo se per favore me la cambiano lì, senza costringermi ad andare a Milano. La commessa, molto gentile, mi fa: “Ma perché non ha detto al Suo amico di cambiarla in un nostro negozio di Roma? B accetta sempre i cambi merce, pur di avere lo scontrino”. Lo scontrino ovviamente c’era, ma io sono zen, evito di maledire il commesso di Milano e propongo alla collega di Monza: “D’accordo, non importa, vi restituisco la camicia e Lei mi fa un “buono”, io lo mando al mio amico di Roma e lui si compra la camicia che gli pare nel vostro negozio laggiù, che ne dice?” Lei mi guarda imbarazzata e mi dice che non si può, se il “buono” è emesso a Monza deve essere consumato in quel negozio lì, né a Milano né tantomeno a Roma. Io le dico che il mio amico può anche venire a trovarmi a Monza, per cambiare ‘sta camicia, ma io sono cliente B da decenni (ho anche la loyalty card, quella tesserina che quando te la danno pare ti firmino un assegno) e magari può tenerne conto. La commessa si consulta pure con la sede, ma non c’è nulla da fare, le regole son queste, c’è di mezzo lo scontrino fiscale, la merce dev’essere restituita nel negozio dove va cambiata, con o senza “buono”. Riprendo ‘sta camicia, che ormai ha attraversato l’Italia, la metto in valigia e la riporto a Roma. Nel frattempo, ho comprato due libri su Amazon (ne compro decine all’anno, sono un buon cliente): il primo è un romanzo consigliatomi da un amico (mai fidarsi degli amici coi gusti diversi dai tuoi), ma è una ciofeca pazzesca, ne leggo metà e poi decido di restituirlo. Vado sul mio profilo Amazon, stampo l’etichetta di reso, porto il pacchetto in un negozietto di singalesi, spedizione gratuita e accredito dell’intero prezzo del libro nel giro di due giorni. Il secondo libro, che la portinaia non era riuscita a infilare nella cassetta della posta, sparisce (vabbè, chi ti frega un libro lo perdono, è cultura che gira...): chiamo Amazon, spiego alla ragazza che mi risponde, molto gentile, se possono farmi uno sconto, visto che devo comprare una seconda copia del libro che mi han rubato (19 euro). La ragazza smanetta un po’ e mi fa: “Beh, Lei è un buon cliente, facciamo che il libro glielo regaliamo noi: tra due giorni lo riceve a casa, stia attento stavolta...”. Due giorni dopo, libro ritirato in portineria. Controllo il mio account Amazon (fidarsi di Jeff Bezos vabbè, meglio verificare); tutto a posto, ho comprato due libri e ne ho pagato uno. Grazie per avermi letto fin qui. La morale? Amazon (e non è che ce ne fosse bisogno) ha acquisito un cliente per sempre (e quando dico sempre, è sempre). B ha perso un buon cliente (per sempre, vedi sopra). Ora scusatemi, parcheggio e porto la camicia girovaga nel negozio B di Roma. Ma se mi dicono di riportarla a Milano, je dò foco (a B, non alla camicia).
14 agosto 2021 - Dopo la pandemia, rimetteremo il cliente al centro del business? Forse...
Sono cliente di un noto gruppo bancario italiano (che abbrevierò con “x”), da più di trent’anni. Il mio primo stipendio, nel 1987, lo incassai sul mio primo conto corrente, aperto quando “x” non si chiamava ancora così. Da allora, due mutui accesi, tutti i proventi del mio lavoro sui conti di “x”, mai (mai) un “rosso”. Un cliente fedele e affidabile, credo, che qualche soldino alla banca l’ha fatto guadagnare, in così tanto tempo. Lavoro in home-banking da anni, in filiale ormai non vado più. L’altro giorno dovevo effettuare un bonifico, solita schermata sul PC, IBAN accettato, in due minuti compio l’operazione. Qualche giorno dopo mi accorgo che il bonifico non è andato a buon fine (il cliente mi ha dato l’IBAN sbagliato, ma se ne sono accorti a operazione abilitata) e mi vedo addebitare 11 euro di “commissione per dati errati su bonifico”. Ora, non è per gli 11 euro (è quello che pago per la tenuta del conto per cinque mesi, bei tempi quando c’erano gl’interessi attivi...), ma per il modo: come, l’errore non è mio e devo pure pagare?! Telefono al numero verde di “x”, mi dicono che non possono fare nulla, ma - forse - potrei rivolgermi al direttore della mia filiale. Telefono, dieci minuti di musichetta, il direttore è fuori stanza. Il giorno dopo mando un’email, risposta automatica “Sono assente per una settimana, per comunicazioni urgenti contattare la filiale”. Contatto la filiale, nessuna risposta (evidentemente non sono urgente). Passa una settimana, silenzio su tutti i fronti, scrivo l’ennesima email. Dopo un minuto (uno!) mi telefona il direttore: “Sa che ero in ferie, non potevo risponderle prima, comunque non posso fare niente, quella è una spesa addebitata in automatico, mi spiace, arrivederci”. Siccome sono testardo e - come cliente ultratrentennale - spero di contare qualcosa, scrivo una PEC al Servizio Clienti, che dopo un paio di giorni, mi risponde così: “Egregio ecc. ecc. la commissione di 11 euro addebitata è prevista in caso di dati esatti o incompleti o in caso di bonifico rifiutato o stornato, come risulta dal foglio informativo numero 068/xxx presente nella sezione trasparenza del nostro sito o presso le filiali del Gruppo. Non abbiamo quindi riscontrato alcuna responsabilità della nostra banca”. Citazione testuale. Qual è la morale? Primo, che la burocrazia è nemica acerrima del customer care: certo che sarà scritto da qualche parte, che un IBAN errato si paga, ma nascondersi dietro un astruso articolo scritto in corpo 8 è troppo facile. Secondo, ho mosso almeno tre persone (il call center, il direttore e il servizio clienti) e nessuno - nessuno - si è preso la briga di controllare chi diavolo fossi e magari se la banca poteva fare un’eccezione per un buon cliente. Terzo, 11 euro non sono nulla, ma se ora “x” prova a vendermi - chessò - un abbonamento a Dazn o a Vodafone o a uno dei suoi cento partner, rifiuto, mando una PEC e invoco l’articolo numero 068/xxx. Fosse capitato da noi, quegli 11 euro ce li avrebbe messi il t.o. (si chiama “intervento commerciale”) o l’agenzia, pur di non giocarsi il cliente per una cifra del genere. Turismo batte banche 1 - 0.
25 giugno 2021 - Le agenzie di viaggi faranno una brutta fine. Ancora?!
Però Varadi è stato quasi sobrio, rispetto ai profeti di sventure che l’hanno preceduto. Bill Gates nel 1996: “Le agenzie di viaggio saranno le prime a pagare il prezzo dello sviluppo di Internet, le prime a scomparire dal mercato. Ecco perché ho creato Expedia” (che avrebbe venduto pochi anni dopo). Stelios nel 1999: “Our relationship with travel agencies is easy: they hate us, we hate them”. Neanche lo traduco. Oggi Varadi si è limitato a prevedere un futuro oscuro per le agenzie di viaggi, magari qualcuno lo avvisi che anche il recente passato non è tutto rose e fiori. Tre semplici motivi perché né Bill né Stelios e tantomeno Varadi ci azzeccano: 1. Perché per arrivare a 100 milioni di passeggeri c’è bisogno di tutti i canali di vendita - Come osserva saggiamente il direttore del TTG Italia, che prende nota delle sorti magnifiche e progressive previste da Varadi, che punta a 100 milioni nel 2026. Le cifre tonde piacciono ai titolisti dei giornali, poi chi diavolo se lo ricorderà - tra 5 anni - cosa ha detto Varadi nell’estate 2021? Sarà stato il caldo… 2. Perché la pandemia lascia strascichi di paura e la gente vuole certezze - Una delle conseguenze di questi 16 mesi disgraziati è il timore che, prenotando on line una vacanza o un volo, qualcosa vada storto. Poteva andare storto pure prima? Certo. C’erano i call center (a pagamento) pure prima, per risolvere i problemi? Certo. Ora che i problemi sono moltiplicati (ne cito uno a caso: cosa succede se ti trovi alle Laccadive e - a causa di un focolaio locale di Covid-19 - cancellano tutti i voli per una settimana?) allora un telefono diretto, il tuo agente di viaggi e una voce amica possono aiutare. Prova a parlare con una vocina registrata: “Rimanga in linea per non perdere la priorità acquisita”. Dalle Laccadive. 3. Perché gruppi e business non smanettano da soli - Certo, prenotare un Ryanair o un easyJet sullo smartphone, mentre si prende la metropolitana o si beve uno spritz con gli amici, è una gran comodità. E i nativi digitali chissà se ci entreranno mai, in agenzia. Ma prenotare un gruppo, per conto proprio o tramite un t.o., oppure la trasferta di cinque tecnici che devono andare da Bari a Londra e tornare su tre aeroporti diversi è cosa complicata. Non basta un sito colorato e una app con le faccine, e neanche le fotine di Instagram. Quando gruppi e business si prenoteranno col pensiero, allora addio agenzie. Intanto, una invocazione. Padre, perdonali (Bill, Stelios e pure Jozsef), perché non sanno quello che dicono.
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