Chi è Roberto Gentile

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L’EDITORIALE DI ROBERTO GENTILE

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CHI VA E CHI VIENE

IL NETWORK DEL MESE

L’AGENZIA DEL MESE

startup image qQuesto post è contro le start-up nel turismo: lo dichiaro subito, così chi sia favorevole può smettere di leggere. Alla fine faccio un paragone con Twitter, che spiega molte cose.

“Le start up sono diventate un po’ di moda... dalle guide digitali alle app per la prenotazione via smartphone di aerei e alberghi, dalle piattaforme b2b per hotel ai sistemi di turismo ‘esperienziale’. Il problema è che la maggioranza delle start up, soprattutto quelle tecnologiche, naufragano: perché adottano business model sbagliati o non sufficientemente consistenti e quindi i loro business plan non sono credibili. Spesso, si tratta di progetti che funzionano solo a livello teorico, ma non sono business oriented: fra app free, no commissioni, modelli premium, viaggi gratis, dormi in casa di host, iscrizioni o altro, la domanda che mi tocca fare è sempre la stessa: dov’è il business?”. Sottoscriviamo al 100% queste annotazioni, che risalgono al 2016 (!) e appartengono a Josep Ejarque (!!), uno dei maggiori esperti in Europa di destination management e marketing.

Se quello che Ejarque scriveva era valido nel 2016, immaginate oggi, a quasi due anni dallo scoppio della più devastante crisi del nostro settore. Eppure chi crede nelle start up, e ci mette pure dei soldi, c’è ancora.

Dall’home-page di blinkoo: “Su blinkoo scopri nuovi posti da visitare e incredibili esperienze da vivere attraverso migliaia di brevi video condivisi da influencer, content creator professionisti e viaggiatori appassionati. Come funziona blinkoo? Guarda video che raccontano luoghi, esperienze, hotel, ristoranti e prodotti tipici di tutto il mondo | Salva i video tra i preferiti per utilizzarli come guida mentre sei in viaggio | Aggiungi i tuoi video per condividere la tua esperienza con gli altri viaggiatori”. In due parole: blinkoo si basa sulla condivisione di clip girati dagli utenti, postati sui social (i soliti, YouTube Instagram e l’ormai immancabile TikTok) oppure consigliati dai “migliori travel influencer”. Video che promuovono “migliaia di esperienze da vivere subito” (a oggi 4.463, scrivono) e che in qualche modo (ma non si spiega come) si potranno prenotare. Fin qui, nulla di rivoluzionario (e la domanda di Ejarque sorge spontanea: dov’è il business?).

Andiamo al sodo, citando ItaliaOggi del 25.11.2021: “blinkoo ha lanciato una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Backtowork e ha raccolto 716mila euro. La raccolta proseguirà per altri 45 giorni per raggiungere l’ambizioso obiettivo di 2milioni e 300mila euro. Smeraldo Meminay, fondatore dell’app già disponibile su Apple Store e Google Play, è un esperto del settore, l’idea di blinkoo nasce nel 2019 dall’esperienza precedente di Crush Travel: in due anni il team dedicato al progetto è cresciuto sino a comprendere 25 persone che lavorano allo sviluppo e alla promozione dell’app”. Se Meminay ti ha convinto, vai su blinkoo.com e “Partecipa alla campagna di crowdfunding”. Non ti fidi di ItaliaOggi? Leggi La Repubblica Viaggi.

 

Qualche riflessione, in ordine sparso:

  • non conosco Crush Travel, ma su Google non si trova e comunque non credo che faccia concorrenza a Expedia o Booking
  • l’unica start up italiana che ha funzionato, negli ultimi 10 anni, è Musement: magari me n’è sfuggita qualcuna, colpa mia
  • non capisco cosa possano fare 25 persone che lavorano tutte insieme su una app, se non smanettare selvaggiamente sui social e spiaccicare like e cuoricini a destra e a manca
  • a me paiono tanti già 716mila euro, 2milioni e 300mila sono una montagna di denaro: sarà un mio limite (io so di t.o., network e agenzie, ahimè), ma a che diavolo servono? A pagare i “migliori travel influencer”? A far apparire blinkoo tra i primi 10 risultati di Google quando digiti “viaggio”? A produrre una vagonata di tweet?

 

Ecco, a proposito di Twitter: in questi giorni esce di scena il suo fondatore Jack Dorsey, quello che nel 2013 fu protagonista dell’IPO sul NYSE, con le azioni che - collocate a 26 USD - salirono fino a 45 USD, dando a Twitter Inc. una valutazione di circa 31 miliardi (miliardi!) di dollari. Oggi il titolo Twitter vale quasi 46 dollari e Dorsey è al 190esimo posto, nella classifica dei multi-milionari secondo Forbes, con un patrimonio personale di 11,8 miliardi (miliardi!) di dollari.

Conclusione, che ovviamente vale per (quasi) tutte le start up turistiche e digitali, non solo blinkoo: facciamo che il solo, unico, immutabile modello di business è quotarsi in borsa e/o vendere la start up a qualcuno che la quoterà successivamente? E dopo, ottenuti i soldi, comprarsi un mega-yacht e trasferirsi ai Caraibi? Così magari, se sei fortunato, incontri Jack Dorsey e vi fate un drink.

P.S. su LinkedIn questo post è stato visualizzato quasi 4.000 volte e ha ottenuto decine di commenti (uno solo a favore delle start up, TUTTI gli altri dalla mia parte) quindi pubblico un aggiornamento, dedicato a un'altra start up, della quale si è occupato nientedimeno che il Corriere della Sera: trattasi di Offtryp, progetto di due giovani viaggiatori milanesi (ora tre) che - partendo dal presupposto che (cit.): “Troppe agenzie di viaggi sono costrette ad alzare i prezzi visto la decrescita della domanda, dovuta a una digitalizzazione povera e a un mancato adattamento al mercato di oggi” - hanno capito come si vendono viaggi on line. Offtryp funziona così: rispondi a una serie di domande (gusti, interessi, budget) e ricevi un preventivo, di due tipi: quello "base", che costa 6 euro e dove non puoi cambiare una virgola, ti arriva via email in 5 giorni; quello "pro", che invece di euro ne costa 35, dove puoi fare 5 (non di più) modifiche all'itinerario e ti arriva in 3 giorni. “Il tutto” recita il sito “interamente modificabile e prenotabile con un solo click”. Insomma, paghi per avere un preventivo. Che ti arriva minimo dopo 3 giorni. Il prossimo obbiettivo? chiede il Corriere al founder: “Chiudere un secondo round di investimento, per poter implementare al meglio la piattaforma ed espanderci il più possibile”. Ah ecco.

 

whatsup330 qHo assistito ai lavori di HICON Hospitality Innovation Conference, organizzata a Bologna da Mirko Lalli di The Data Appeal Company, Mauro Santinato di Teamwork e Giancarlo Carniani ideatore di BTO. Ottima vetrina per comprendere cosa si muova oggi nell’hospitality, ovvero in uno dei comparti più dinamici e moderni della filiera turistica.

Andrea Giuricin di TRA Consulting e Michele Sambaldi di Pellicano Hotels, Matteo Ciccalè di Scalapay e Giovanna Manzi di Best Western, Andrea Delfini di Blastness e Fabio Coppola di YellowSquare concordano tutti su un punto: senza tecnologia non si va da nessuna parte e chi tenta di rimanerne fuori farà la fine dell’Hotel Miramare di Viserbella, che ai propri clienti manda ancora una cartolina di auguri di Natale. Per posta.

Ognuno, ovviamente, vede la tecnologia applicata all’hospitality dal proprio punto di vista. Ciccalè come modalità di acquisto a rate senza pagare interessi, Coppola come canale per la creazione di una community, Delfini come mezzo per battere le OLTA a disposizione degli hotel indipendenti. Ma la questione più intrigante l’ha posta Sambaldi: “Passo la mia giornata a cercare di capire come funziona l’Intelligenza Artificiale, quando i robot sostituiranno il personale e se i chatbot diventeranno intelligenti. Ma intanto, nei miei hotel, accolgo gli ospiti con un sorriso. Perché, quello, la tecnologia non può riprodurlo!”.

Concordo al 100%. Dopo un’indigestione di tecnologia applicata al turismo, rimango dell’idea che la miglior accoglienza in un albergo, raggiunto magari dopo un faticoso viaggio, sia il sorriso di un/a giovane e un caldo: “Ben arrivato, signore, è un piacere averLa qui con noi. Cosa posso fare per Lei?”

Ovvio che yeld e revenue siano imprescindibili. Ovvio che - come afferma Giovanna Manzi - dare in outsourcing attività “core” dell’hotel come ristorazione, manutenzione o pulizie, magari per investire l’equivalente in Google Travel Ads, significa NON fare l’imprenditore alberghiero. Ovvio che - ancora Sambaldi - se entro in camera e per accendere la TV su Rai1 impiego mezz’ora, nonostante due telecomandi a disposizione, qualcosa non funzioni.

Comprare tecnologia e usarla male, ovvero dimenticando il fattore umano, è come avere una Ferrari e non saperla guidare. Allora meglio l’Alfasud dell’Hotel Miramare di Viserbella, che almeno gli auguri di Natale me li manda. Per posta.

 

whatsup 321 qSono due i comparti che (da quando esiste il marketing) dovrebbero mettere il cliente al centro del business: commercio e servizi. Del primo ho scritto recentemente, riconoscendo l’eccellenza di Amazon rispetto a un retailer (abbigliamento maschile) tradizionale. Oggi mi occuperò di servizi, registrando ahimè ancora arretratezza del “tradizionale” rispetto al “nuovo”.

Sono cliente di un noto gruppo bancario italiano (che abbrevierò con “x”), da più di trent’anni. Il mio primo stipendio, nel 1987, lo incassai sul mio primo conto corrente, aperto quando “x” non si chiamava ancora così. Da allora, due mutui accesi, tutti i proventi del mio lavoro sui conti di “x”, mai (mai) un “rosso”. Un cliente fedele e affidabile, credo, che qualche soldino alla banca l’ha fatto guadagnare, in così tanto tempo.

Lavoro in home-banking da anni, in filiale ormai non vado più. L’altro giorno dovevo effettuare un bonifico, solita schermata sul PC, IBAN accettato, in due minuti compio l’operazione. Qualche giorno dopo mi accorgo che il bonifico non è andato a buon fine (il cliente mi ha dato l’IBAN sbagliato, ma se ne sono accorti a operazione abilitata) e mi vedo addebitare 11 euro di “commissione per dati errati su bonifico”.

Ora, non è per gli 11 euro (è quello che pago per la tenuta del conto per cinque mesi, bei tempi quando c’erano gl’interessi attivi...), ma per il modo: come, l’errore non è mio e devo pure pagare?! Telefono al numero verde di “x”, mi dicono che non possono fare nulla, ma - forse - potrei rivolgermi al direttore della mia filiale. Telefono, dieci minuti di musichetta, il direttore è fuori stanza. Il giorno dopo mando un’email, risposta automatica “Sono assente per una settimana, per comunicazioni urgenti contattare la filiale”. Contatto la filiale, nessuna risposta (evidentemente non sono urgente). Passa una settimana, silenzio su tutti i fronti, scrivo l’ennesima email. Dopo un minuto (uno!) mi telefona il direttore: “Sa che ero in ferie, non potevo risponderle prima, comunque non posso fare niente, quella è una spesa addebitata in automatico, mi spiace, arrivederci”.

Siccome sono testardo e - come cliente ultratrentennale - spero di contare qualcosa, scrivo una PEC al Servizio Clienti, che dopo un paio di giorni, mi risponde così: “Egregio ecc. ecc. la commissione di 11 euro addebitata è prevista in caso di dati esatti o incompleti o in caso di bonifico rifiutato o stornato, come risulta dal foglio informativo numero 068/xxx presente nella sezione trasparenza del nostro sito o presso le filiali del Gruppo. Non abbiamo quindi riscontrato alcuna responsabilità della nostra banca”. Citazione testuale.

Qual è la morale? Primo, che la burocrazia è nemica acerrima del customer care: certo che sarà scritto da qualche parte, che un IBAN errato si paga, ma nascondersi dietro un astruso articolo scritto in corpo 8 è troppo facile. Secondo, ho mosso almeno tre persone (il call center, il direttore e il servizio clienti) e nessuno - nessuno - si è preso la briga di controllare chi diavolo fossi e magari se la banca poteva fare un’eccezione per un buon cliente. Terzo, 11 euro non sono nulla, ma se ora “x” prova a vendermi - chessò - un abbonamento a Dazn o a Vodafone o a uno dei suoi cento partner, rifiuto, mando una PEC e invoco l’articolo numero 068/xxx.

Fosse capitato da noi, quegli 11 euro ce li avrebbe messi il t.o. (si chiama “intervento commerciale”) o l’agenzia, pur di non giocarsi il cliente per una cifra del genere. Turismo batte banche 1 - 0.

 

whatsup326 qSiamo reduci dal TTG di Rimini (chi non c’era ha torto, stavolta più che in passato) e abbiamo tutti la sensazione che sia andata bene, l’atmosfera tra i padiglioni era frizzante e i numeri lo confermano. Sorrisi sotto le mascherine e pugnetti al posto di strette di mano sono stati numerosi e convinti, però ho la sensazione che, in parte, siano dovuti a un fenomeno definibile “revenge exhibition” (copyright Armando Muccifora di Thai, che peraltro al TTG non è venuto). Abbiamo talmente voglia di uscire dalla cupa atmosfera degli ultimi 18 mesi che passare due o tre giorni in fiera rappresenta una sorta di riscatto, un premio che ci sentiamo di meritare, quindi siamo contenti a prescindere. Sappiamo che il business, quello vero, è di là da venire, ma intanto ci prepariamo.

Frequento fiere da più di trent’anni, ne ho viste di tutti i colori, quindi mi perito di conoscere i “tipi da fiera”. Oggi mi dedico a 5 “tipi da TTG”, gente che s’incontra in giro. A Rimini e non solo.

Quello che il PIL del turismo deve crescere al 20%, quello che l’Italia ha il 70% del patrimonio turistico mondiale - Di norma è un politico prestato al turismo, che fino all’altro ieri si è occupato di Parmigiano Reggiano o di Protezione Animali. Oppure è un esperto di marketing che sa tutto della Ferragni e dei Nutella Biscuits, ma non conosce la differenza tra incoming e outgoing. Entrambi sproloquiano di turismo, in favore di telecamera, e hanno capito che quando citano il PIL o il numero dei siti Unesco, un titolo o un lancio stampa lo acchiappano. “L’Italia è il Paese più bello del mondo!” proclamano entusiasti. Chi l’avrebbe mai detto, rispondiamo noi.

Quello che quest’anno ha lo stand più figo; quello che lo stand più figo ce l’aveva l’anno scorso, ma quest’anno non c’è - Sono le aziende che hanno deciso di esordire in fiera. Padiglione maxi, luci sparate, musica a palla e hostess come se piovesse. Ovvio che siano uno degli stand più affollati, in fiera quando c’è casino (scusate la metafora) la gente ci si tuffa, anche perché colazioni e aperitivi sono gratis. “Cresceremo del 100% in due anni, puntiamo a 50 milioni!” recitano entusiasti i loro comunicati stampa. C’è a chi va bene, cresce del 15%, si accontenta e l’anno dopo in fiera ci va ancora, con stand ridotto e hostess limitate. Ma c’è chi sparisce del tutto e quando chiedi al collega che lo scorso anno ballava praticamente sul tavolo: “Ehi, ma qui non c’era lo stand di XY, che fine ha fatto?” risponde distratto: “Boh, a me deve ancora pagare una fattura”.

Quello che cambia azienda più frequentemente delle edizioni del TTG - “Ciao, come stai?” (io) “Magnificamente! Senti, devo presentarti Paperino Tour Operator, è una bomba!” (commerciale aggressivo, di quelli che in fiera ti parlano, ma nel frattempo sbirciano le ragazze che passano). “Paperino? Ma non lavoravi per Topolino?” “Ma no, Topolino Tour Operator? Ho fatto una consulenza l’anno scorso, ma erano scarsi. Allora, noi di Paperino puntiamo a 50 milioni in due anni!” “50 milioni? Ma non era l’obiettivo di Pippo? Mi avevi pure lasciato un comunicato stampa, due anni fa...” “Pippo Tour Operator? Sì, bravi, ma erano lenti, non valeva la pena... Paperino è il futuro, posso mandarti l’intervista del CEO e founder? Mi scrivi qualcosa, vero?” “Va bene, manda, Paperino è un bel nome per un t.o.” Il bello è che quel commerciale ci crede, beato lui.

Quello che prima era il CSR, poi è arrivato l’esperienziale, dopo è passato al food e oggi è tutto green - Sono le mode in fiera, che poi sono le stesse che girano in azienda e di cui parlano giornali e TV. Qualche anno fa se non ti occupavi di Corporate Social Responsibility eri un paria, poi se osavi parlare di “destinazione” e non di “esperienza” ti guardavano male, quindi è arrivato Master Chef e cucinare, sempre in favore di telecamera, è diventato il mestiere più bello del mondo. Da quando c’è Greta, il mantra è “green/ecologico/sostenibile” e tutta la filiera turistica - dal rifugio in montagna all’agenzia sotto casa - si vanta di fare la differenziata (quella seria, con 7 bidoni colorati diversi). Bello e corretto, magari tenendo conto che il nostro settore - tra aerei e pullman, hotel sulla spiaggia e immersioni sulla barriera corallina - è purtroppo uno dei meno green che esistano.

Quello che “ma lo sai che...?!” - È il personaggio che in fiera mi piace di più, se non lo incontro ci rimango male. Perché un sorriso te lo strappa sempre. Si avvicina, ti afferra un braccio, si guarda intorno per capire se ci sono orecchie indiscrete e poi ti spara all’orecchio: “Ehi, ma lo sai che il capo di XY se la fa con la tipa di YZ? Lo sai che ha piantato la moglie? Quella ha ingaggiato una banda di avvocati e ha promesso di fargliela pagare cara! Per me XY salta domani!” “Ma no?! Davvero?” rispondo io, un po’ scettico. “Eddai, che ti ho mai raccontato balle?! E lo sai che il proprietario della compagnia AB è scappato coi soldi e ai soci ha lasciato un miliardo di debiti? Per me AB salta domani!” “Pure loro? Caspita!” replico io. Quello che “ma lo sai che...?!” può andare avanti per ore. Le sa tutte.

 

Ma ormai sono le 18, la fiera chiude, tu sei sfatto, te ne vai barcollante verso l’uscita e pensi: “Sì, vabbè, alla fine mi è piaciuta anche stavolta, l’anno prossimo ci torno!".

 

whatsup 319 qQuando raccontavo dei profeti di sventura che vaticinano la fine delle agenzie di viaggi spezzavo una lancia a favore del retail tradizionale. Ora faccio il contrario, dimostrando che quando l’eCommerce fa del suo meglio (Amazon, chi altri?) il commercio al dettaglio è spacciato. Partiamo da quanto scrive il Corriere Economia: “C’è un’area in Italia dalla quale rischia di partire un vero e proprio terremoto sociale: il commercio al dettaglio. È probabilmente oggi il comparto di massimo allarme sociale. Si tratta di un mondo esteso, con oltre un milione di dipendenti diretti. E sono fortemente in pericolo”. Ecco, che siano “fortemente in pericolo” (e non solo per colpa della pandemia) lo dimostra il racconto che segue, tutto provato e documentabile. Abbiate pazienza, è lunghetto.

Ho un amico di Roma che compie gli anni e decido di regalargli una bella camicia. Sono in Stazione Centrale a Milano, entro nel negozio di una catena di abbigliamento maschile (molto nota in Lombardia, che indicherò come “B”) e la compro. Il commesso, peraltro molto gentile, si dimentica di dirmi che è una “slim fit” (cioè una taglia in meno) e soprattutto che - nel caso non andasse bene - devo restituirla in quel negozio lì. Vado a Roma, consegno la camicia, che però va stretta (beh, è una “slim fit”...), ma io dico al mio amico di andare nel negozio di B più vicino (Via Appia Nuova, a Roma) che certo gliela cambiano. Per sicurezza telefono a B in stazione per avvisarli, ma il commesso mi dice che la camicia non può essere cambiata a Roma, solo a Milano; al che, blocco il mio amico (che stava entrando nel negozio di Roma) e lo spedisco alle Poste più vicine per rimandarmi indietro la camicia (10 euro per la spedizione). Ricevo la camicia e visto che abito a Monza, mi reco nel negozio di B in pieno centro, chiedendo se per favore me la cambiano lì, senza costringermi ad andare a Milano. La commessa, molto gentile, mi fa: “Ma perché non ha detto al Suo amico di cambiarla in un nostro negozio di Roma? B accetta sempre i cambi merce, pur di avere lo scontrino”. Lo scontrino ovviamente c’era, ma io sono zen, evito di maledire il commesso di Milano e propongo alla collega di Monza: “D’accordo, non importa, vi restituisco la camicia e Lei mi fa un “buono”, io lo mando al mio amico di Roma e lui si compra la camicia che gli pare nel vostro negozio laggiù, che ne dice?” Lei mi guarda imbarazzata e mi dice che non si può, se il “buono” è emesso a Monza deve essere consumato in quel negozio lì, né a Milano né tantomeno a Roma. Io le dico che il mio amico può anche venire a trovarmi a Monza, per cambiare ‘sta camicia, ma io sono cliente B da decenni (ho anche la loyalty card, quella tesserina che quando te la danno pare ti firmino un assegno) e magari può tenerne conto. La commessa si consulta pure con la sede, ma non c’è nulla da fare, le regole son queste, c’è di mezzo lo scontrino fiscale, la merce dev’essere restituita nel negozio dove va cambiata, con o senza “buono”. Riprendo ‘sta camicia, che ormai ha attraversato l’Italia, la metto in valigia e la riporto a Roma.

Nel frattempo, ho comprato due libri su Amazon (ne compro decine all’anno, sono un buon cliente): il primo è un romanzo consigliatomi da un amico (mai fidarsi degli amici coi gusti diversi dai tuoi), ma è una ciofeca pazzesca, ne leggo metà e poi decido di restituirlo. Vado sul mio profilo Amazon, stampo l’etichetta di reso, porto il pacchetto in un negozietto di singalesi, spedizione gratuita e accredito dell’intero prezzo del libro nel giro di due giorni. Il secondo libro, che la portinaia non era riuscita a infilare nella cassetta della posta, sparisce (vabbè, chi ti frega un libro lo perdono, è cultura che gira...): chiamo Amazon, spiego alla ragazza che mi risponde, molto gentile, se possono farmi uno sconto, visto che devo comprare una seconda copia del libro che mi han rubato (19 euro). La ragazza smanetta un po’ e mi fa: “Beh, Lei è un buon cliente, facciamo che il libro glielo regaliamo noi: tra due giorni lo riceve a casa, stia attento stavolta...”. Due giorni dopo, libro ritirato in portineria. Controllo il mio account Amazon (fidarsi di Jeff Bezos vabbè, meglio verificare); tutto a posto, ho comprato due libri e ne ho pagato uno.

Grazie per avermi letto fin qui. La morale? Amazon (e non è che ce ne fosse bisogno) ha acquisito un cliente per sempre (e quando dico sempre, è sempre). B ha perso un buon cliente (per sempre, vedi sopra). Ora scusatemi, parcheggio e porto la camicia girovaga nel negozio B di Roma. Ma se mi dicono di riportarla a Milano, je dò foco (a B, non alla camicia).